Anche se il tuo cuore ti condanna…
Se a una persona che ci è vicina venisse a mancare il suo volto di vivente, tienigli forte la faccia contro il vento! [s. Giovanni il persiano]
Alla questione: cosa fare con se stessi? la trappola è rispondere al livello dell’agire. Spesso l’azione serve da alibi: ci si lancia con ebbrezza, per evitare di incontrare se stessi. Ma come si spera di incontrare gli altri, d’amarli in verità, se non abbiamo incontrato anzitutto noi stessi? Non si potrà rispondere alla questione: cosa fare con se stessi? se non al livello dell’essere, iniziando con lo strappare le nostre maschere e con l’accettare di essere ciò che siamo: e per accettare, così, ciò che sono gli altri, dietro alle maschere che ancora non sono riusciti a togliersi.
Per tutto il tempo che mi rifiuto quest’assenso, manco alla mia libertà: rassegnandomi all’apparenza, rinuncio a essere; e l’apparenza alla lunga non tiene! Rinunciando all’audacia di vivere, mi rassegno a sopravvivere. Accettare di riconoscere me stesso così come sono, anche se ciò fosse deludente, anche se ciò fosse fallimentare, è là che inizia la mia libertà, là inizia ogni santità.
Nella Bibbia, salvare è detto liberare. E liberare è sempre creare: il Signore libera per fare nuove tutte le cose; libera tutte le energie che sono in me per inventarmi e reinventarmi senza posa.
Capita talvolta che il giudizio che un uomo ha di se stesso dissolva la sua volontà di vivere. Invece, nella passione che gli impedisce l’equilibrio, nello stesso vizio che l’umilia, potrebbe spessissimo scoprire le potenzialità che si nascondono in lui e che, se fossero percepite, gli rivelerebbero delle sorgenti sotterranee di una grande ricchezza. Eppure non sta scritto: Anche se il tuo cuore ti condanna, Dio è più grande del tuo cuore e conosce ogni cosa (1Gv 3, 20)? Ma lui s’è interrogato solo dinanzi alla Legge e la Legge è calata su di lui come una mannaia e s’è bloccato sulle sue condanne e sul disprezzo di se stesso, s’è rinchiuso nei suoi sensi di colpa.
Se solo s’interrogasse – sul fondamento di quella di Dio – dinanzi alla propria tenerezza, forse potrebbe – tra tutti i suoi rifiuti, nella sua ferita, nelle sue rotture, anche nel suo peccato – riconoscere delle possibilità, degli sguardi, delle nostalgie, che le parole non possono dire, ma che spesso sono delle tensioni in attesa. Non strappate la zizzania, dice Gesù.
È proprio della condizione umana, d’essere limitata e ferita; ma, si è colpevoli per il fatto di essere uomo o di essere donna? Il primo passo, dinanzi a nostri limiti, non dovrebbe essere mai l’accusa, ma la accettazione dolcissima e molto umile, serena. Perché, nella maggior parte dei casi, invece che porsi in termini di bene e di male, tutto ciò che siamo, anche il peggio di noi stessi, è anzitutto qualcosa che attiene alla natura e alla vita. È necessario che mi accolga e mi ami umilmente; ma tutto, senza restrizioni: ombre e luci, dolcezze e collere, sorrisi e lacrime, umiliazioni e fierezze; rivendicare tutto il mio passato, il mio passato inconfessato, inconfessabile, perché il mio passato mi appartiene, il mio passato sono io: è lui che mi ha plasmato il volto. E ora mi viene chiesto: vuoi odiarlo negli altri, o fare proprio di esso il motivo della com-passione, visto che è lo strumento che ti è più proprio? Non si vive a dispetto di se stessi, mai. Eccola la libertà, ella consiste anzitutto in questo: tutto ciò che mi ha fatto, anche se difettoso, trasformarlo in Vita, per me stesso e per gli altri.
Ma sono state messe in campo tante condizioni – psicologiche, religiose, morali, … -, che ci viene da dirci: Quando sarò diventato questo o quello, quando mi sarò sbarazzato di quel difetto, di quel vizio, allora potrò essere me stesso, potrò vivere! Invece è l’inverso a esser vero: comincia col vivere, con l’osare essere te stesso, e tu vedrai sciogliersi ciò che ti lega! Comincia col vivere la tua tenerezza e tu vedrai il tuo vizio dissolversi da se stesso!
Ho appreso a diffidare della perfezione, detesto la perfezione. Ho scelto la santità. La perfezione sono io che la fabbrico per me stesso; la santità è Dio che me la dona. La perfezione è collocata alla fine d’un cammino che mi sono tracciato per me stesso; la santità è un dono per adesso, per immediatamente. Il perfetto è umiliato dal suo peccato, non lo sopporta; la santità non è mai umiliata, perché è umile. Si è umiliati quando ci si credeva qualcuno; si è umili quando si accetta il povero che sono. E … beati i poveri … (Mt 5, 3ss).
Da molto tempo non credo più ai buoni propositi. Ma credo alla tenerezza, al suo potere miracoloso. E il suo primo miracolo è su se stessi. Dire questo non è sminuire il peccato, è solo rifiutare di lasciarvisi rinchiudere; non è disprezzare la Legge, né la morale, né i princìpi; è andare oltre: è dare creatività alle esigenze di essere e di divenire.
A forza di condizioni, troppe persone si riducono a vivere solo con i migliori frammenti di se stessi …: quelli che sono conformi alle norme, alle aspettative degli altri. È l’attitudine farisaica, che non presenta al Tempio se non il meglio. Il resto, di cui sono meno fieri, o meno sicuri, è chiuso col catenaccio ai margini della loro coscienza. Sin quando non verrà il giorno in cui emergerà la vecchia piaga, che fermenta e si infetta nelle pieghe umiliate di se stessi. E allora, perché stupirsi del fatto che la possibilità di amare diminuisce?
Per colui che ha abbastanza coraggio e semplicità, da superare le proprie autocondanne, inizia immediatamente la nascita a se stesso. Certo, occorre un’infinita dolcezza. Ma, allora, tutti i miracoli sono possibili. Non si hanno possibilità di futuro, se non a partire da ciò che si accetta di essere. Se rifiuto ciò che sono, mi immobilizzo per sempre, prigioniero della situazione in cui mi giudico, e mi impedisco di divenire. è ciò che sono che diviene. Se sfuggo ciò che sono, non posso divenire. No! non ci sono condizioni per stare vicino a Dio, perché Dio è amore e tenerezza. È il suo stesso essere: non è altro che tenerezza, dono, accoglienza, scambio. Ecco la santa Trinità. E Dio crea l’umanità a sua immagine: l’uomo, che è la piena capacità di dono, la donna, che è la piena delicatezza dell’accoglienza, e il bambino, che è – tra suo padre e sia madre – il segno della comunione.
Se questo è Dio, se questo è l’uomo, perché avere paura di Lui? perché avere paura di me?
È il Dio poeta che non smette di creare l’uomo e il mondo e la vita, sempre appostato per farmi diventare me stesso ogni giorno. E Gesù, che è il Volto di Dio in mezzo a noi e che m’accoglie come un fratello, mi dice soltanto: Vieni, sono io! Nessuna condizione, nessun test da riempire. E siamo attraversati dal grande soffio della tenerezza di Dio, lo Spirito, tanto che quando Dio parla a se stesso, passa attraverso l’uomo: per dire Padre, lo Spirito passa attraverso di me (Gal 4, 6).
Ci hanno troppo insegnato a camminare a frustate, mentre noi siamo Figli! Io sono un centro unico di tenerezza. In mezzo a miliardi di miliardi di persone prima o dopo di me, io sono – io soltanto! – l’unico esemplare che Dio ha di me e Dio è pazzo d’amore per me. Dinanzi a questo Dio, di cosa dovrei avere paura? dinanzi a questa tenerezza, dinanzi a questa follia, io non so più dove vado, ma ci vado! Tutto torna a essere possibile, perché tutto comincia ogni giorno! Dio è fiero dell’uomo e l’uomo sta in piedi dinanzi a Dio. Quando Giobbe, rovinato, abbandonato, allo stremo, deriso, rigettato, non ha più niente, dice: Mi presenterei dinanzi a Dio come un principe (Gb 31, 37). Come un principe! Ecco Dio ed ecco l’uomo!
E quando si va verso questo Dio, anche un passo falso è ancora un passo! Il giorno in cui s’è osato accogliere se stesso tutto intero (coi propri limiti, le proprie illusioni, i propri smacchi, le proprie goffaggini, il proprio peccato), e si scopre che è meraviglioso essere così poveri quando si è tanto amati, si passa dall’abitudine o dal rifiuto di se stessi, all’invenzione continua di sé: perché diventiamo respons-abilitati a tirar fuori il meglio di noi stessi.
Quando si va verso questo Dio, s’apprende che la fedeltà non è all’indietro – verso la educazione ricevuta, la formazione, i codici, i princìpi -, ma in avanti: è ciò che ad-viene, che mi provocherà a divenire, a maturare, a modificarmi. La fedeltà è in avanti, verso ciò che posso far ad-venire grazie al fatto che sono amato. La fedeltà è verso il Volto di Gesù. E quando si è là, si sa cosa fare di sé: dal momento che sono diventato ciò che sono, tutte le strade sono aperte, avendo come fondamento Dio che mi ama e come sole della mia Speranza il Volto di Gesù, il suo cuore.
La speranza non è una virtù passiva, una pseudo-fiducia, fondata su non so quale magia dell’avvenire. La speranza porta in se stessa tutto il compito di fare: è tutto ciò che devo fare di me. Il soffio dello Spirito che ci attraversa ci conduce in avanti e Dio continua la sua opera attraverso i nostri occhi, i nostri cuori, le nostre mani. E io sono libero!
E anche quando le sorgenti della mia gioia diventano le stesse delle mie tristezze, o l’oggetto del mio amore diventa contemporaneamente l’oggetto della mia collera, è ancora l’ora della speranza. Quale che sia il caos, quale che sia lo scacco, quale che sia la disgrazia, anche se la morte è là, è ancora l’ora della speranza. Ella è là, in piedi per dominare l’assurdo, affonda le radici alle sorgenti stesse della disperazione, nel fondo stesso delle contraddizioni. Di ogni ostacolo, sa fare un trampolino di lancio e di ogni brandello ella fa uno stendardo. Anche se dovesse contraddire l’esperienza più consolidata, la speranza è la mia ragione per accettare di essere me stesso.
La mia speranza ha un nome, un volto: il Nome e il Volto di Gesù. La speranza è nata a Betlemme, nella solitudine e nel rifiuto, nella minaccia e nell’abbandono. Ella va a vivere in questo piccolo bimbo scampato al massacro degli innocenti, in quest’uomo braccato, dal suo primo giorno, dalla violenza. E le due braccia di Gesù, dilaniato sulla croce per sbarrare la strada all’odio, sono ancora tutta la speranza. Ella è la battaglia finale per dominare la morte. Ella è al bordo dell’impossibile. Ella ci grida che ogni amore è risorto, e che io, io sono io e che, qualsiasi cosa mi capiti, io in Dio sono un riuscito!
È lei che mi fa dire al Dio della tenerezza: Padre, ho tentato di essere un uomo e sono tuo figlio!
[Jacques Leclercq, Vie Chrétienne, marzo 1983]