Il Concilio raccontato ai miei figli
Riceviamo e pubblichiamo, in occasione dell’approssimarsi dell’11 ottobre – data dei 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II – quest’articolo scritto il 16/08/2008 dal giornalista e fratello scout Paolo Giuntella, poco prima della sua morte.
“Arrivammo a piazza San Pietro con le nostre fiaccole, un po’ eccitati e, tuttavia, “comandati”, cioè organizzati, non per spontanea volontà, con le nostre divise scout “perfette”. Dopo tre giorni il papa avrebbe inaugurato ufficialmente il Concilio ecumenico vaticano II. C’erano migliaia e migliaia di persone, quella serata d’ottobre. Avevo compiuto tre giorni prima 15 anni e forse ero l’unico, del mio gruppo scout, che sapeva, per sentito dire familiare, che cosa era un Concilio. Eravamo in quella piazza, mobilitati, come altre volte, per coreografia, per rendere omaggio al vecchio papa. Mobilitati magari da persone, da prelati, che ritenevano quella decisione del papa “buono” una jattura, una sciagura, per la Chiesa. Ma a noi quelle cerimonie piacevano perché ci “mettevano in mostra” con le nostre divise, ci sentivamo osservati, e il nostro narcisismo di gruppo era soddisfatto anche se bisognava aspettare in piedi tra preti suore ragazzi devoti dell’Azione Cattolica e della legione di Maria, vecchiette, e tanti, tantissimi curiosi e stranieri.
Ma la”cerimonia” non fu una “cerimonia” come noi ci aspettavamo. Sì perché, come si dice oggi per avvenimenti assai più banali – concerti rock e grandi spettacoli – quello era un evento e la routine curiale allestita dal vicariato di Roma si trasformò presto un “Evento” davvero eccezionale, in una sorta di happening cristiano, spirituale, in un annuncio di tempi nuovi prodigiosi che avremmo vissuto in tutto il decennio.
L’euforia che percorreva molti degli stranieri presenti, molti preti pretoni e pretini e tanti laici che per anni e anni non avevano neppure sognato un “evento” così perché era oltre gli stessi loro sogni e le stesse lunghe battaglie e ricerche, quella stessa euforìa ci contagiò.
Poi il papa, il vecchio papa “buono” che aveva fatto imbestialire i benpensanti con due encicliche – che nessuno di noi aveva ancora letto – la “Mater et magistra” e la “Pacem in terris”, sorprese ancora una volta tutti con piccole parole indimenticabili: “e adesso quando tornerete a casa date una carezza ai vostri bambini, dite loro una parola buona: il papa è con voi”. Ed io fui così preso da quel “mandato” che, tornando a casa, detti una carezza alla mia sorellina di 7 anni. Di quella serata ho un ricordo intensissimo eppure avvolto in una splendida nebbia solare di ricordi. Sono sicuro di aver sentito il papa dire, davanti a quella fiaccolata e a quella folla, “ci parrebbe di essere ad Efeso”…riferendosi all’atmosfera che si respirò – così raccontano gli storici – nel celebre concilio di Efeso, quando nelle taverne e nei crocicchi si discuteva di teologia e anziché scazzottarsi o sfottersi sulla Roma e sulla Lazio, la gente si scazzottava e discuteva animatamente sulla divinità e l’umanità di Gesù il Cristo e sulla Trinità….Ma forse era soltanto un riferimento che ripeteva spesso papà a tavola. Già, papà, anche lui sorpreso dal “papa buono”, anche lui superato nei suoi sogni di riforma della Chiesa dallo Spirito Santo.
Eppure io sono convinto d’aver ascoltato il papa parlare di Efeso e dello spirito di Efeso….Già.
Per mesi avevo origliato le conversazioni di mamma e papà. Papà, tutto insopportabilmente francese – a casa nostra si leggevano solo riviste cattoliche francesi,”Informations Catholiques Internationales”, “Etudes” (gesuiti), “Signe du temps” (domenicani),”Documentation Catholique”, “Croissance de jeunes nations”; e libri di teologi e scrittori francesi. E noi ragazzi ci arrabbiavamo un po’ perché quella di papà ci sembrava quasi un’ossessione. Lui ordinava gli abbonamenti e i libri – spesso “proibiti” a Roma e in traduzione italiana – alla Libreria Francese: i suoi autori preferiti erano i “pères” (i padri) Congar, Chenu, Carré, domenicani, i gesuiti Danielou e De Lubac, e il loro confratello Pierre Teilhard de Chardin, lo svizzero Hans Urs von Balthasar, il tedesco amico di Pier Giorgio Frassati, Karl Rahner….Papà mi sembrava incontentabile. Io, invece, che ascoltavo la radio (l’unico in famiglia, la televisione non ce l’avevamo) subivo di più l’influenza dell’informazione ufficiale.
Tuttavia avevo origliato le conversazioni di papà con gli storici Pietro Scoppola, Alberto Monticone e Fausto Fonzi e il giovane filosofo Pietro Maria Toesca ed avevo leggicchiato i loro”documenti” che inviavano alla rivista “Quest’Italia”. Avevo origliato e spiato gli ospiti, lo storico Roger Aubert, il teologo protestante (ahiaiai!) Oscar Cullmann, l’abate di Monserrat Escarré cacciato in esilio dai franchisti….il vescovo di Lima, in Perù. Sicché avevo percepito le preoccupazioni, la paura che tutto finisse in una sola sessione con grandi canti di giubilo e poca sostanza, e persino alcuni movimenti dell’ultima ora per far cambiare al papa il discorso inaugurale che la “curia romana” gli aveva preparato; e così avvenne. Per me quei nomi erano, Chenu, Congar, Rahner, von Balthasar, apparivano un po’ mitici e tuttavia imbarazzanti.
Mi dispiaceva, sotto sotto, che papà leggesse “autori proibiti”. Poi, nel corso dei trent’anni successivi avrei appreso che quasi tutti erano stati fatti cardinali dai papi successori del grande papa buono: Journet, Danielou, De Lubac, von Balthasar, Congar, considerati addirittura maestri di vescovi a cardinali.
Per capire il clima in cui maturò e quindi avvenne il Concilio bisogna leggere l’introduzione di padre Giacomo Martina sul contesto storico alla mastodontica opera sul Concilio curata dai gesuiti della Gregoriana e pubblicata nel 1988 da “Cittadella”. La gran parte dei “periti”conciliari, i più grandi teologi del Novecento, Chenu, Congar, Danielou, De Lubac, Rahner avevano avuto libri all’indice, erano stati rimossi – per qualche mese o qualche anno dall’insegnamento. Una storia dolorosa eppure di grande fedeltà.
La Chiesa si presentava come una società perfetta, che proponeva ai “fedeli” una risposta completa su tutto: dall’etica sessuale alla politica, dalla liturgia alla teologia, dalla scuola alla sanità…”con la sua liturgia, la sua pietà, il suo insegnamento morale, la sua filosofia tomista e la sua dottrina sociale – scrive Rènè Remond, storico e grande intellettuale cattolico francese, accademico di Francia, nel suo recentissimo libro-intervista “le christianisme en accusation” – la Chiesa offriva una spiegazione globale. Un sistema chiuso senza possibilità di errore.
La Chiesa indicava come comportarsi in tutti i campi. Questa visione oggi è stata costretta alla ritirata. Poco a poco il cattolicesimo è evoluto rinunciando ad una visione totalizzante di se stesso. Si ammette che è un errore fare un amalgama tra ciò che costituisce l’originalità propria del cristianesimo ed altri aspetti più circostanziati, più storici, destinati ad essere transeunti”. E questo è il frutto di purificazione evangelica del Concilio. Il ritorno alle origini alla Tradizione, quella della Chiesa primitiva da non confondersi con le tradizioni, oserei dire le tradizioni popolari.
Così arrivò domenica 11 ottobre. Fui trascinato in piazza san Pietro da papà con tutta la famiglia, per vedere quello spettacolo unico al mondo: “i padri conciliari”, con i cappelloni bianchi, i vescovi di tutto il mondo convocati a Roma senza una scadenza prefissata. E papà raccontava dei precedenti concili della storia, ed aveva la speranza – non segreta per noi -della fine della litania contro gli ebrei, di un decreto sulla libertà religiosa, dell’apertura del dialogo con i protestanti, gli ortodossi e gli ebrei suoi (di papà e dunque nostri, fratelli).
Si. Tra i giorni, tra gli “eventi”, più importanti – forse il più rivoluzionario – del secolo c’è quel giorno, quei giorni, anche se quasi nessuno più ne parla. Ma voi, almeno i più anziani, ricordano cosa era la Chiesa, cosa era la liturgia, prima del Concilio, il passaggio dal”trionfalismo” alla sequela, dalle mercedes nere dei cardinali alle piccole cinquecento prese in affitto da cardinali e vescovi stranieri per arrivare a San Pietro nei giorni di assemblea o di lavoro delle commissioni? La Chiesa, attardata in alcuni vicoli ciechi – il rimpianto del passato,l a teoria della guerra giusta, la difesa dell’ordine stabilito o il sogno di ristabilire un “ordine” -sia pure “sociale” – cristiano, la paura della cultura e della libertà dei figli di Dio, la paura del “mondo moderno”, spalancava le finestre per far uscire l’aria viziata e far entrare nelle sue stanze antiche aria nuova, aria fresca.
Certo, altri avvenimenti di questo secolo, del Novecento, hanno profondamente inciso sulla mia vita e sulla vita collettiva degli abitanti del pianeta: la Shoa – che ho conosciuto dai racconti di mio padre -, gli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy, l’ascesa del fascismo e del nazismo, i processi staliniani, la primavera di Praga, la rivoluzione cubana, la Liberazione, la guerra in Vietnam, la fine dell’apartheid in Sud Africa, la caduta del Muro di Berlino….Ma io sarei completamente diverso se non ci fosse stato il Concilio. Forse non sarei neppure più cattolico… E quanto diversa è la Chiesa, e quanto diversi siamo tutti noi e, in parte, nonostante la “marginalità” nel pianeta dei seguaci di Gesù il Cristo, il mondo.
Se il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu definì il Concilio “una rivoluzione copernicana nella Chiesa”, se persino le televisioni e i settimanali popolari parlarono di “primavera della Chiesa” e se molti credenti considerano quell’evento lontano concluso (nei suoi lavori, ma non ancora compiuto nel suo disegno e nella sua direzione) trentacinque anni fa “una nuova Pentecoste”, significa che l’avvenimento più importante del secolo. Almeno per i credenti. Cattolici, naturalmente, ma anche protestanti, ortodossi, ebrei. Per la svolta epocale che ha significato nei rapporti interconfessionali, sul terreno dell’ecumenismo, e, nonostante tutti i ritardi, le tradizioni culturali e le incrostazioni storiche, anche tra i popoli. E persino per i non credenti. Perché la Chiesa tornava ad essere un interlocutrice credibile, esigente, aperta, qualche volta persino all’avanguardia. La Chiesa rompeva mura di isolamento e di stereotipi, di pregiudizi, di luoghi comuni, di incomunicabilità.
Noi ragazzi – cattoliconi, apostolici e romani – vivemmo dunque quella vigilia, quella fiaccolata, quel giorno-evento, 11 ottobre 1962, un po’ a metà del guado, forse senza percepire – almeno nei primi giorni – la vera portata della svolta storica. Un po’ affascinati e un po’ annoiati – come capita del resto a tutti i ragazzi normali – dagli incensi e dalla solennità, dai cerimoniali un po’ sontuosi, e un po’ catturati dal colore, dell’eccentricità esotica di quella assemblea, dal folclore di contorno, dalle facce dei vescovi africani e asiatici, dalle tonache e dai copricapo dei vescovi orientali. E pur tuttavia la grande curiosità e l’eccitazione di noi romani che potevano sbirciare un evento così planetario girato l’angolo di casa nostra, non riuscirono a sopire le divisioni che l’avvenimento provocava tra noi sulla base del sentito dire casalingo, dell’educazione ricevuta in famiglia, dei giornali quotidiani che entravano a casa. Molti dei miei amici (quasi tutti mi avrebbero poi superato a sinistra con il ‘68) appartenevano alle famiglie “della paura”.
Nelle loro case si pregava la sera perché il Concilio finisse al più presto possibile senza procurare scandali e rivoluzioni. Si pregava perché lo Spirito Santo tenesse la mano ben salda sulla testa del “papa buono” che qualche esagerazione l’aveva già fatta e che, sempre lo spirito santo, bloccasse con la sua manona la bocca ciarliera del comunistello di sagrestia Giorgio La Pira, e impedisse ai teologi francesi di rovinare la Chiesa introducendo la disubbidienza, l’eresia, l’anarchia in Santa romana ecclesia.
A casa mia si pregava invece per l’esatto opposto. Che Dio conservasse a lungo Giovanni XXIII (mai nessuno di noi l’avrebbe chiamato il “papa buono”perché, diceva papà, era un modo per sminuirlo) e che lo Spirito Santo, finalmente tornato in forze nella Chiesa, illuminasse la curia romana, istillasse coraggio ai vescovi della periferia della chiesa e ai “periti conciliari”.
Il giorno dopo, lunedì 12 ottobre il professore di latino e greco (Del Vecchio, si chiamava, che Dio l’abbia in gloria), comunista stalinista napoletano, dalla cattiveria pedagogica assai reazionaria, e un po’ settario – ci spiattellava ogni giorno in classe la sua “enorme”, così ci pareva, copia dell’Unità – decise di festeggiare l’apertura del Concilio – parata folclorica della Chiesa, congrega reazionaria e sopravvivenza medievale – interrogandomi e tirandomi, ad ogni risposta, le orecchie. Abitava dieci numeri dopo nella stessa via e mi aveva visto con la divisa scout. Ed io corsi all’edicola a comprare “La Croix”, il quotidiano cattolico francese. Ero più “moderato” di papà che seguiva il Concilio dalle cronache di “Le Monde”. E da quel giorno io cominciai a discutere, litigare, pregare, sognare, la Chiesa dei tempi nuovi, la Chiesa del ritorno alle origini, la chiesa che per me aveva l’odore della polvere di sabbia, un incrocio tra il deserto delle “Massime” di Charles de Faucauld e dei racconti delle piccole sorelle amiche di papà e mamma, e le strade della Palestina.
“La rivoluzione”
L’11 ottobre 1962, dunque, il discorso del Papa, rivisto e corretto dopo l’intervento di alcuni cardinali francesi e tedeschi, come ormai tutti i maggiori storici del Concilio Vaticano II e il diario di padre Chenu hanno documentato, aprì spazi di speranza, liberò dagli ultimi timori. Fu sicuramente una cerimonia molto formale, ma l’idea di imprigionare lo Spirito Santo in una gabbia celebrativa fu battuta. Cominciò a Roma, pur tra tante timidezze e prudenze, davvero a soffiare un vento nuovo. Certo “quel giorno” non consumò l’evento in se. Forse la giornata veramente storica può essere considerata, a ragione dei risultati, il giorno in cui Paolo VI concluse il Concilio, l’8 dicembre 1965, con quei messaggi, in particolare, ai giovani e agli intellettuali, che riassumono la svolta storica epocale.
La Chiesa comincia il dialogo con il mondo moderno. Comincia il dialogo ecumenico, si apre il percorso della riconciliazione con gli ortodossi – culminato con lo struggente incontro tra il papa e il patriarca Atenagora e il ritiro delle reciproche scomuniche – con i protestanti con gli ebrei.
Si chiude un Concilio che non condanna nessuna “eresia” e propone ai cattolici una nuova categoria – in realtà antica come la Bibbia – la lettura dei “segni dei tempi”. Alla cultura del”giudizio” si sostituisce la cultura del “discernimento”. La Chiesa si pone in ascolto e propone ai credenti l’umiltà, il riconoscimento dei segni, delle attese, delle domande valoriali nuove che vengono dalle culture contemporanee, dai tormenti e dalle conquiste della coscienza umana. “aggiornamento”, il “rinnovamento”, la riconquista della Parola di Dio, della familiarità con la Bibbia, “la collegialità” tra i pastori, la speranza anziché la rassegnazione o la nostalgia, il “popolo di Dio”, la “liberazione”, il “legittimo pluralismo delle scelte politiche”, “l’obiezione di coscienza” e il “primato della coscienza”, unità e la comunione nel rispetto dei diversi carismi, la profezia e il primato della carità, la chiamata all’amore, diventano la nuove parole maestre dei cattolici. Alla nostalgia per “la ricostruzione di un ordine cristiano” e per la “cristianità” si sostituisce la lettura dei segni dei tempi, la spiritualità e la teologia dell’esodo, la spiritualità della Lettera a Diogneto tanto cara a Giuseppe Lazzati. Si, è una “rivoluzione copernicana”, nella fedeltà alla Chiesa delle origini, dunque alla vera Tradizione apostolica ed evangelica che nulla ha a che vedere con la “tradizione” storica, al tradizionalismo. Ritorno al futuro come ritorno alla Fedeltà.
Ma se con la memoria, o semplicemente, per chi non era ancora nato o era bambino, con l’aiuto degli storici, torniamo a quegli anni, a “quel giorno”, ci rendiamo conto che il vero”evento”, la vera data, fu quell’11 ottobre, quando le finestre furono spalancate. Oggi la lettura del Concilio, dunque di “quel giorno” preso nella suo significato di emblema, nella sua suggestione simbolica, si offre ad interpretazioni diverse. Da quelle più conservatrici (“E’ tutta colpa del Concilio”: “la rovina della Chiesa”, il secolarismo, l’indifferenza, la frammentazione dei cattolici, lo svuotamento delle chiese…); a quelle più corrosive di intellettuali non credenti o anticlericali (molti dei quali preferivano la Chiesa trionfalista, conservatrice, la messa in latino, il gregoriano, la solennità, per nostalgìa o perchè preferivano avere i cattolici “contro”, nemici della modernità, della storia, della cultura contemporanea, tutti dentro il loro schema tradizionale: cattolici sanamente reazionari, Chiesa avvolta nel mistero e nella solennità lontana dalle masse del rito. Pasolini, come oggi Ernesto Galli della Loggia, per gusto della provocazione e per nostalgia dei loro schemi, non hanno capito il Concilio. E Galli della Loggia ancora tre anni fa’ in un editoriale della rivista “Liberal” riproponeva l’antico schema lefebvriano: le chiese svuotate dal Concilio.
Poi ci sono le interpretazioni “moderate”,”prudenziali” interne alla comunità ecclesiali. Concilio, bene, ottimo, lo Spirito ha soffiato, ma si è dovuto un po’ correre ai ripari. Troppe interpretazioni radicali, troppe fughe in avanti, troppa sperimentazione liturgica, nel dopoconcilio, troppo popolo di Dio e troppa poca autorità, Concilio figlio dei tempi….A questa lettura si contrappone quella (ormai piuttosto invecchiata e canuta come i capelli dei protagonisti) degli insoddisfatti – sempre di meno – dei nostalgici della “rivoluzione tradita”.Infine le ultime due: quella che, giustamente storicizza la scrittura testuale del Concilio negli anni dell’ottimismo, della cultura dello sviluppo illimitato e della speranza nel progresso inarrestabile dell’umanità nella giustizia e nella pace, dunque che ne coglie questo limite e tuttavia riconosce il soffio dello Spirito Santo e riflette sulla portata storica dell’evento. Se la Chiesa non avesse spalancato le sue finestre, intere generazioni che con fedeltà, passione, intelligenza, sono rimaste nella Chiesa e si sono impegnate per il suo rinnovamento, avrebbero lasciato assai prima la barca di Pietro ed oggi, certo, le chiese sarebbero deserte.
Molto più vuote, abbandonate, e “secolarizzate” di quanto pur in tempi di “penuria della fede” non siano oggi. Infine la lettura di coloro che credono che il Concilio sia un evento, un soffio, non concluso e non compiuto, che va ancora incarnato, realizzato, nella Chiesa: una traccia permanente e incancellabile sulla quale costruire il futuro e chissà, le strade per un nuovo concilio. Con pazienza, tenacia, comprensione per la carnalità, i ritardi, la stanchezza degli uomini in carne ed ossa, così come sono, e per le istituzioni che inevitabilmente ne riflettono le debolezze gli umori le lentezze e tuttavia anche le speranze.
Certo immaginarsi cristiani del nuovo millennio senza costituzioni conciliari come la “Lumen gentium”, la “Dei Verbum”, la “Gaudium et spes” o la dichiarazione sulla libertà religiosa, senza la rivoluzione che è avvenuta nelle missioni, nell’ecumenismo, senza la consapevolezza della dignità e del sacerdozio laicale del popolo di Dio, sarebbe, anzi è, assolutamente impossibile.
Il Concilio in parole povere (e in parole di laico ai figli). Quali i punti fondamentali, dunque, dell’aggiornamento?
Come, dunque, un semplice laico cristiano, impegnato nella sua professione e culturalmente immerso nella laicità della cultura contemporanea, può riassumere quelli che sono stati, alla sua percezione e alla sua esperienza, i frutti del concilio, i punti di non ritorno: almeno come appaiono alla sua sensibilità?
La ripresa, anzi tutto dell’ascolto dell’umanità. Senza nessuna pretesa di giudizio, quanto piuttosto di “compassione”, di “patire” insieme, di sentire insieme le domande profonde, i dubbi e le speranze, dell’uomo contemporaneo. Il passaggio dalla rassegnazione alla speranza, del“doloriamo” moralista alla gioia della liberazione, alla spiritualità della Resurrezione che non esclude la Croce ma torna a “centrare” la debolezza della Croce nella forza mite e povera della redenzione.
I cristiani non sono più una rigida società perfetta divisa tra gerarchia e fedeli, ma una comunità di redenti, il popolo di Dio. L’affermazione della dignità della Chiesa locale che è fondamento della Chiesa universale. Una fede da inculturare nelle culture dei popoli e non da imporre secondo la propria cultura europea, occidentale, latina. Il principio di collegialità dei vescovi come cammino di ritorno allo stile della Chiesa primitiva. Ma soprattutto il ripristino della centralità della parola di Dio, della Bibbia, come cuore e fondamento della ricerca teologica, della preghiera, della spiritualità, della evangelizzazione e della stessa pastorale. Dunque la centralità della Signoria del Cristo e del suo annuncio, nella nudità e purezza della Rivelazione.
Sono conquiste straordinarie ed impensabili (anche se non sono novità, è semplicemente il ritorno alla Tradizione, alle origini, un ritorno liberato dal peso della storia, del trionfalismo, del temporalismo, delle “tradizioni”), solo qualche anno prima del Concilio. Ne racchiudono il soffio, lo Spirito non esaurito.
E vale la pena di ricordare soprattutto ai più giovani o distratti, che il Concilio conta molto di più di qualsiasi enciclica – per quanto bella – ed è “sviluppo” della Rivelazione, dinamica dello Spirito.
Naturalmente sono novità – o meglio processi di ritorno alle origini – che non si possono realizzare o compiere in un percorso relativamente breve negli anni. E’ uno Spirito nuovo che va interiorizzato. Novità che hanno creato tensioni, conflitti, reazioni, tentazioni di tornare indietro,forse anche minore efficacia di presenza, un’apparente debolezza. Ma in realtà proprio la debolezza è il segno più forte del ritorno alle origini: la debolezza della Croce nei confronti del mondo,dell’organizzazione mondana, così come fu intuita dai santi-profeti, da Francesco d’Assisi a Benedetto Labre, da monsignor Romero a Helder Camara, dal cardinal Pellegrino a Vittorio Bachelet con la scelta “religiosa” dell’Azione Cattolica. Un processo di purificazione – progressiva e tuttora in marcia ma inarrestabile nonostante tutte le anse e i venti di bonaccia, le lentezze e le tentazioni di fermare il tempo – con spinte e controspinte – della Chiesa dal potere, dalla riduzione del cristianesimo a civiltà temporale e temporanea, a cultura, a deposito di morale, a perbenismo, a centrale di cultura d’ordine e rassegnazione.
L’orgoglio dell’Azione Cattolica deve essere proprio quello di essere parte di questo cammino con la sua scelta religiosa che fu non rinuncia, ma al contrario più autentica ambizione cristiana, primato dell’evangelizzazione, non rinuncia a vivere il rapporto fede-politica, fede-storia, nessuna rinuncia all’educazione all’impegno, e alla formazione di laici impegnati anche nel politico, ma liberazione da ipoteche e collateralismi politici. Una grande scelta di maturità laicale.
Si osa dire: ma l’Azione Cattolica fu quasi dimezzata. Ma chi osa, seriamente, pensare che l’Azione Cattolica senza scelta religiosa ci sarebbe ancora in Italia? Quante perdite per ragioni “religiose” e di coscienza avremmo dovuto pagare e contare?Pensate, a proposito di frutti, alla riforma liturgica: Chi oggi potrebbe pensare anche solo lontanamente a tornare alla messa in latino ed uguale per tutti dall’Irlanda al Salvador, dal Congo all’India, incomprensibile per la stragrande maggioranza anche in Italia e nei paesi latini, alla parola di Dio nascosta nell’antica lingua, a liturgie forse piene di misteriosità (la parola mistero è ben più seria), di ritualità lontana, senza partecipazione?
Un linguaggio liturgico fissato per sempre nel tempo al di là dei mutamenti del lessico popolare, delle espressioni di festa o di lode, dei gusti musicali? Chi di noi potrebbe oggi fare a meno della dimestichezza con la Bibbia (e in particolare con l’Antico Testamento, tanto a lungo relegato a racconto di pochi personaggi, quasi fosse una mitologia più che la Rivelazione in cammino nel popolo di Dio)?
L’Apertura ecumenica e il decreto sulla libertà religiosa: che non fu il cedimento ad un pericoloso vizio modernista o una perdita di identità, ma il paziente, tenace, percorso di riparazione del grandissimo scandalo e peccato della divisione (scaturita assai più per motivi politici e culturali che per motivi teologici, almeno agli inizi). Un tracciato irreversibile: non è progressismo, anche in questo caso è un cammino di ritorno alle origini.
Alla Tradizione cristiana primitiva. La liberazione del popolo di Dio dalla prigione della società perfetta, della “cristianità”, della “civiltà cristiana, tutte cose incompatibili con l’esperienza cristiana perché riduzioni ideologiche. Una specie di tana libera tutti che cancella l’espressione passiva e suddita di “fedeli” perché finalmente siamo, torniamo ad essere “Popolo di Dio”.
In questo processo di purificazione il più grande atto del Giubileo 2000, la giornata del Perdono, della purificazione della memoria, è stato il frutto del Concilio (oltre che della volontà personale di Giovanni Paolo II). Il Concilio Vaticano II – appena appena in tempo, ma si sa i percorso dello Spirito sono imprevedibili – accetta la sfida del dialogo con il mondo moderno e le culture contemporanee. La fine della società “cristiana”, della cristianità dominante e coincidente con la morale comune, con il buon senso comune.
Inaugura un sentiero – con tutte le difficoltà, le pene, le paure, dunque le perdite – di passaggio dalla “fede d’obbligo” alla “fede di convinzione”. E se con il Vaticano II finisce l’età storica dell’ eurocentrismo cattolico, per noi europei inizia il ritorno alla spiritualità dell’esodo, alla spiritualità della strada.
“Non molto tempo fa’ la Chiesa si presentava come un’istituzione dominatrice, sicura di sé, in ragione della sua gloria infallibile – ricorda lo storico ed accademico di Francia Réné Remond, grande intellettuale cattolico, molto equilibrato e ascoltato dai vescovi di Francia – infallibile e superba. Dopo il Concilio Vaticano II non lo è più, almeno ufficialmente.
La Chiesa non intende più dominare la società, ma camminare con gli uomini. Non si considera più una società perfetta e superiore. Abbiamo ben compreso tutta la portata di questo cambiamento”? E’ il ritorno al primato del Vangelo. Un ritorno ancora da compiere, un cammino in campo aperto con tutte le perdite numeriche ma anche le conquiste e le gioie dell’autenticità delle vocazioni laicali e religiose.
“La catechesi iniziata dal Concilio ha avuto ragione d’insistere sul fatto che il messaggio evangelico – è ancora Réné Remond le suo recentissimo libro- intervista Christianisme en accusation – invita ad una rottura, a cambiar vita. Esiste una dimensione irrinunciabile della fede che propone anzitutto una esperienza spirituale forte alla persona, in piena libertà. Oggi credere non è più un atto d’obbligo sociologico, la fede non si trova più preservata da un guscio, da un involucro ben sigillato. Il cristiano è gettato nel pieno vento dell’esistenza: sta a lui costruire la propria visione delle cose e del mondo”. Così, da una visione deduttiva, calata dall’alto, fissata per sempre in una idea astratta di ordine sociale cristiano da restaurare, si passa ad una visione induttiva del rapporto Chiesa-mondo, fede-storia, fede-politica.
Le categorie nuove (e antichissime, perché biblicamente fondate) diventano dunque: leggere i segni dei tempi; il discernimento; l’esodo; il dialogo (sul modello del dialogo di Gesù con la samaritana, con la Maddalena, con Zaccheo…), l’ascolto.
Non più l’ordine da difendere ma la “liberazione” da affermare come popolo “liberato”, “redento”, sottratto alla tirannia della morte. Non più la pretesa di cristianizzare tutta la pasta, ma la volontà di essere lievito, il fermento, il sale. Da conquistatori a servi, da dominatori ad animatori. Insomma lo statuto della lettera a Diogneto che tanto piaceva a Giuseppe Lazzati. E’ lo spirito dell’avventura cristiana, del pellegrino, lo spirito della Gaudium et Spes, che significa gioia e speranza non pietà e rassegnazione.
Nell’ultimo paragrafo di questa costituzione conciliare si legge una affermazione estremamente importante, e non sempre, e non pienamente ancora recepita e interiorizzata da non pochi cattolici:
“la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani”. E proseguendo la Gaudium et Spes ricorda senza paura o indugio che la Chiesa cattolica “ in forza della sua missione e della sua natura non è legata ad alcuna particolare forma di cultura umana o sistema politico, economico, o sociale” (una vera rivoluzione culturale rispetto al pre-Concilio) e proprio per questo può essere al servizio del dialogo e del processo di unità del genere umano al di là delle differenze culturali, religiose, storico-politiche.
I laici cristiani, al punto 43, fondamentale nell’aprire la strada all’autonomia del laicato nelle attività umane, dalle professioni alla ricerca scientifica ed umanistica, dall’economia al sindacato e alle scelte politiche e legislative, sono invitati all’impegno senza perdere di vista (peccato di integralismo o di temporalismo) la città futura, ma anche senza astenersi dalle lotte, dai conflitti, dai percorsi istituzionali, nei quali si realizza (o si cerca di realizzare) la promozione umana. Durissimo il richiamo conciliare all’incoerenza (“dissociazione”) tra affermazione di fede o di identità – ridotte “esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali” – e la vita quotidiana, l’ortoprassi cristiana. Questa dissociazione “va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo”.
E qui siamo al passaggio chiave sul quale si fonda l’idea di laicità e in particolare di laicità della politica:“Gioiscano piuttosto i cristiani, seguendo l’esempio di Cristo che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro attività terrene unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio.
Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione”.
E’ la rivincita di tanti precursori, pionieri cristiani del secolo: certamente la rivincita di Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari, di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, e dei teologi della “nuova teologia” francese, Chenu, Lebret (autore poi della celeberrima e oggi purtroppo dimenticata, “Popolorum Progressio” di Paolo VI), Congar, e dei due ex assistenti della Fuci don Guano e don Costa, di padre Balducci, di don Milani, di don Mazzolari.
Infine ancora parole chiarissime – e in qualche caso, almeno in Italia – ancora incompiute – sia sull’autonomia dei laici impegnati in politica, sia sul pluralismo delle scelte politiche e dunque sulla possibilità di pareri opposti tra i cattolici su programmi e soluzioni. Ascoltare per credere: Non pensino i laici cristiani “che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero.
Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa”.
Certo, se ci riferiamo alle ipotesi sullo sviluppo, alla questione ambientale, alla giustizia economica e alla redistribuzione delle risorse, possiamo evidentemente parlare del “limite” di questo documento: l’essere impregnato di ottimismo, un ottimismo ridimensionato dalle vicende conclusive del secolo e dalle nuove emergenze. Ma questa riflessione, lungi dal considerare superata questa magna carta del laicato e questa tavola del dialogo tra Chiesa e mondo contemporaneo, semmai, piuttosto, richiama la necessità e la speranza di un nuovo concilio ecumenico, come del resto è stato anche autorevolmente sostenuto.
Quel che veramente conta, se vogliamo leggere il Concilio nel suo giusto spirito, è la lezione di metodo, la scelta dell’empatia e della fraternità con gli uomini, con le ricerche culturali, con i dubbi e le preghiere dell’umanità, con i poveri e i diseredati del pianeta. Una Chiesa che accetta la debolezza della Croce e accetta di trasfigurare l’Icona della Bellezza (il volto di Dio), nell’Icona della Tenerezza immersa nel volto sfigurato e sofferente dei poveri e degli ultimi.
“La debolezza e la sofferenza sono costitutivi della condizione umana. E’ una dimensione essenziale del messaggio cristiano, il senso del valore infinito di ogni uomo, qualsiasi sia il suo status, la sua condizione. E’ il significato profondo della “opzione preferenziale per i poveri” sulla quale la Chiesa mette fortemente l’accento, e non soltanto in America latina; il rifugio dei piccoli, dei deboli, i perdenti, i feriti dalla vita, che è stata portata avanti negli ultimi anni.
E’ una delle evoluzioni più forti dell’era post-conciliare: la Chiesa si s’interessa meno delle élites rispetto al passato e prende in canto anzitutto gli emarginati e gli esclusi. E vuole essere testimone della tenerezza e della misericordia del Cristo servo. Cosa che è, del resto, il minimo per una religione che si richiama all’amore evangelico”.(Réné Remond, Christianisme en accusation, pag. 105, Paris 2001).
In questo senso il Concilio invita i cristiani, a partire dalla lettura dei segni dei tempi, ad utilizzare gli strumenti dell’intelligenza umana – il discernimento e la mediazione culturale – e alla luce della Parola e nell’empatia personale e comunitaria con Dio, li impegna in quanto popolo di Dio ad affermare la giustizia e la tenerezza del Signore, come anticipazione del Regno.
Il Concilio, se lo dovessi raccontare ai miei figli, è dunque l’affermazione della tenerezza del Cristo che si incarna nel volontariato, nella Caritas, nella scelta dei poveri, nell’uscita da una visione quietista, perbenista, benpensante, passiva, della fede. E tuttavia non riduce il cristianesimo a filantropia. Anzi: riconosce la capacità di volontariato, di solidarietà dei non cristiani e dei non credenti. E’ l’ingresso, nonostante il dolore, le sconfitte umane, le sconfitte dei nostri progetti, in una dimensione di speranza che è insieme libertà e impegno senza musoneria e moralismi: una pedagogia della trascendenza (e dell’escatologia).
La lezione di metodo della Guadium et Spes, in particolare, impegna i cattolici a non fermarsi alla affermazione di principi ma anche ad inventare nuove formulazioni, a rispondere ai nuovi bisogni spirituali ed umani che si esprimono nei nostri giorni. In questo senso Il Concilio esige di essere attuato e portato avanti, non custodito come un tesoro teologico o peggio ancora retorico. Se il Concilio e l’età conciliare si confrontarono soprattutto con il marxismo, oggi i cristiani si confrontano ogni giorno con il nuovo “pensiero unico”, con il liberismo, che è anch’esso una “ideologia”, un mix di cinismo pratico e culto ideologico del denaro come levatrice del mondo.
Attuare il Concilio significa continuare a “scrivere” la Gaudium et Spes con nuove analisi ma con la stessa lezione di metodo. Oggi significa, ad esempio, porsi alcune domande: Come resistere al pensiero unico? Al materialismo pratico occidentale? Come porsi nei confronti della globalizzazione esercitando il discernimento critico e la mediazione culturale? Come opporsi alla globalizzazione dei mercati e all’impotenza locale della politica, del sindacato, delle istituzioni?
Come opporsi alla macdonaldizzazione e al dominio della precarietà, della gratificazione istantanea? Come opporsi all’ omologazione della ricchezza e dell’eccesso di ricchezza senza perdere i giovani e i poveri, i quali – non potendo più sperare nella rivoluzione o nella solidarietà di classe – affidano le loro speranze alle briciole del ricco epulone, al sogno di diventare ricchi calpestando gli altri.
Ridefinire nelle società del benessere – e in un mondo senza sogni rivoluzionari – il senso della povertà, e della ricchezza, la spiritualità dell’essenzialità e la cultura del limite, per rifondare territori di progettazione politica e sociale non ideologica e invece attenta ai nuovi bisogni: la precarietà della vita come conseguenza del lavoro precario, le terribili incognite della devastazione ecologica, la crescita dei poveri nel Terzo-Quarto Mondo ma anche nei paesi ricchi, le dimensioni dei flussi migratori e dello sradicamento dei poveri, la questione – inimmaginabile negli anni in cui fu scritta la Gaudium et spes – dell’acqua, della riduzione delle risorse idriche….
Insomma, quella domenica 11 ottobre 1962, si proietta nel prossimo secolo con una attualità ancora intatta. “Quel giorno” è inverato un evento ancora incompiuto e soprattutto non consumato. Se tutti i grandi – e terribili – eventi del Novecento si sono consumati o hanno esaurito la loro “spinta propulsiva”, se tutte le rivoluzioni del secolo hanno concluso più o meno tragicamente il loro corso, non è così per il Concilio. E questo non è solo il giudizio dei credenti, ma, dal punto di vista dei cambiamenti storici che ha innestato, può essere anche il giudizio dell’osservatore non credente, dello studioso, dello storico del prossimo secolo.
E se, certo, nell’oggi, la memoria di “quel giorno” è lontana dalla coscienza popolare, dalle esperienze di vita e dalle nozioni della grande maggioranza dei giovani, in realtà tutti credenti, anche inconsapevoli, ne respirano ancora il soffio.
E la storia “breve” del secolo, così drastica nelle esaltazioni e nelle cancellazioni, nonostante la polvere accumulata sui lavori e sui documenti dalla tirannia effimera del primato della cronaca, non è riuscita a riporre in soffitta la portata, il senso profondo, l’eredità di questo evento di un giorno d’ottobre del 1962 a Roma. Anzi, quel giorno, la Chiesa cattolica cominciò un percorso di ritorno al futuro, di ritorno alle radici della Chiesa primitiva, all’autenticità della esperienza cristiana, che continua, che può soltanto espandersi, allargando nei tempi nuovi l’ampiezza del suo spirito di dialogo, di riconciliazione con le altre famiglie cristiane, con le altre famiglie dei credenti nel Dio unico padre dell’umanità.
Nessun altro evento di questo secolo è proiettato nel futuro quanto quel Concilio ecumenico vaticano secondo, dunque quel giorno d’ottobre, dunque quella fiaccolata della sua vigilia. Ante et retro oculata la “vigilia” della Chiesa continua.
Il Concilio è superato? Quando sento queste affermazioni – dette anche in buona fede – sento puzza di bruciato. Temo, semplicemente, che con questa scusa si voglia tornare indietro. Temo che si voglia tornare a prima del Concilio – come certi segnali mostrano: il nuovo clericalismo, i movimenti “forti” a guida monarchica, la tentazione dei soldi per sostenere la “presenza” cristiana – e ad un modello neo-clericale di Chiesa-società che fa a meno delle mediazioni culturali, dello specifico laicale. Certo i giovani lo sentono un po’ lontano.
Ma forse è colpa nostra, colpa della nostra incapacità di comunicare. Il Concilio non va messo in museo. Con pazienza, umiltà, tenacia, va attuato per aprire le porte al futuro del cristianesimo nel tempo in cui storici e sociologi, anche cristiani, parlano di declino del cristianesimo e stato di penuria della fede cristiana. A noi spetta spalancare le finestre al soffio dello Spirito. Preparare le vie al Concilio Vaticano III…Il resto sarà opera di Dio.
Il Concilio fu il sogno di nonno Vittorio che si realizzava. Un sogno che prese di sorpresa, in contropiede lui e suoi amici che tanto avevano sofferto e sognato sulle pagine di Chenu, Congar, De Lubac, Rahner, Teilhard, Lebret, monsignor Ancel, e sulle pagine di Informations Catholiques Internationales, Signe du Temps, Etudes, Esprit, Il Gallo, Testimonianze, il Tetto….ma anche nonno sognava già da anni il Nuovo Concilio ecumenico….Che Dio ci ami.”
Paolo Giuntella