Storie di pellegrini in cammino
Riceviamo e volentieri pubblichiamo alcuni pensieri e racconti sui ‘pellegrini in cammino’, ricevuti dalla nostra AS Ivana Canale.
Il pellegrino, il pellegrinaggio e il cammino: nient’altro che me verso me stesso – (Farid al-Din ‘Attar, “il Profumiere”, sufi persiano del XII Secolo)
Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato. – (Italo Calvino, Palomar)
I gechi hanno il Sud nella pelle (di Luca GIANOTTI)
Una volta ho visto l’ombra di un geco che si arrampicava fino in cielo. Mi sono girato ma del geco nemmeno l’ombra. Poi mi sono girato di nuovo ed ecco l’ombra del geco. Dove si nascondeva questo animaletto furbetto? Il mio amico Silvio il pastore mi aveva spiegato che i gechi si mettono sui vetri, e stanno immobili. Quando gli insetti arrivano verso il vetro attratti dalla luce, loro scattano e se li mangiano, come fanno anche i camaleonti. Non sapevo se era vero, né se aveva a che fare con l’ombra che avevo visto. Forse, pensavo, c’è un grande vetro, il geco è lì appiccicato con le sue zampette a ventosa, e io vedo solo l’ombra.
Il geco si chiamava Geco Moro. E aveva un sogno, andare verso sud. Non che dove vivesse non fosse sud. Era già un bel sud pugliese, fatto di sole caldo, salsedine, vento di mare. Ma voleva andare più a sud. Per cercare di scoprire il mondo. Partì, aveva una chiara percezione di dove fosse il sud, perché i gechi sono così, hanno il sud nella pelle.
Partì dalla città bianca dove viveva, una città di sassi, muretti, scogli appuntiti, falesie sul mare. Camminò un giorno intero, ma non fece molta strada. Arrivò un po’ più in periferia, e si nascose in una fessura. Aveva mille risorse, e trovò il destino che passava di lì. Camminando.
Vide, seduti ai tavolini di un bar, un gruppetto di umani. Facevano chiasso, erano allegri, avevano grossi zaini. Andavano verso sud. Da cosa lo capì? I gechi hanno il sud nella pelle. E prese una decisione, scelse lo zaino più grosso, uno zaino azzurro di marca norvegese, portato da un uomo mingherlino, dall’aria mite.
Era buffo, con quegli scaldamuscoli giallo sole-del-sud, nelle braccia al posto delle maniche. Si infilò senza problemi, i gechi sanno farsi sottili, e si collocò in alto, dove da un piccolo occhiello di metallo poteva guardare fuori, con una visuale perfetta, proprio sopra la testa dell’uomo che subito battezzò “il mingherlino”.
Il gruppo riprese il cammino, e la strada verso sud correva vicino al mare. Si procedeva a buon passo, e Geco Moro si godeva la posizione privilegiata, vedeva le onde alte, il vento che piegava i pini, i muretti di sassi, le case bianche, la spiaggia lunga e piena di oggetti di plastica sputati via dal mare. La sera si fermarono in una masseria, tra gli ulivi, con un cortile lastricato di pietre e al centro un grande albero di carrubo. Geco aspettò che “il mingherlino” posasse il grosso zaino norvegese, e scivolò fuori, non visto, per nascondersi in una fessura del muro.
Lo aspettava la parte più faticosa della giornata, che poi non era una grande fatica. Doveva procurarsi da mangiare, e per questo aspettò l’arrivo del buio. Non fu difficile catturare qualche insetto, il suo pasto quotidiano, e a loro andò la sua gratitudine, gli insetti gli davano la forza di fare il suo viaggio, di coltivare il suo sogno verso sud. I gechi infatti hanno il sud nella pelle.
“Conoscevo una moffetta che veniva da Molfetta….”, canticchiava, una canzoncina a quel tempo di moda tra i gechi pugliesi.
La mattina dopo ripresero il cammino. Non presto, all’alba, come avrebbe voluto Geco Moro. Molto più tardi, e fu una partenza lenta. Lui era pronto già da ore nella tasca superiore dello zaino blu, davanti all’occhiello di metallo che faceva da oblò. Camminarono subito verso sud, e questo Geco lo sapeva bene. Qualche volta zigzagavano, non erano un gruppo di lupi ma di umani, e anche questo Geco lo sapeva bene. Camminarono nelle campagne, tra gli ulivi, e una volta, solo una volta quel giorno, si affacciarono sul mare, da lontano lui vide anche il nord, da dove erano venuti, e fu felice di vedere la punta e il faro, lontani, ne avevano fatta tanta di strada, verso sud. Da solo ci avrebbe impiegato mesi.
Camminarono fino al buio, e Geco aveva fame. Arrivarono in una città sul mare, con un porto di rocce, casette azzurre e rosa, barche di legno ad asciugare e pescatori che preparavano le reti. Avevano tutti fame, entrarono in un ristorante vicino al porto. Geco Moro uscì dal suo nascondiglio, “il mingherlino” e gli altri erano già seduti attorno a una lunga tavola e cominciarono il solito chiasso, bevendo vino e mangiando pittule. Aveva una gran fame anche lui, assaggiò una briciola di pittula caduta dal tavolo, non era male. Provò a strisciare in cucina senza esser visto. Si trovò un gattone davanti.
Cominciò a scappare, col gatto dietro. Fece appena in tempo ad arrampicarsi sul muro, ma era in una posizione troppo scoperta, lo potevano vedere! Guardò gli umani, una di loro lo vide e sorrise.
Meglio nascondersi, pensò. E si infilò dietro un armadio. Finalmente al sicuro, ripensò a suo cugino, lo chiamavano Geco Biondo, si era trasferito in una grande città, più a nord, viveva in un ristorante. Come si fa? pensò. Nei ristoranti è pieno di gatti, e i gatti, si sa, non sono molto amici dei gechi. I gatti si divertono a cacciare i gechi. Per due briciole, lasciare il sud, lui no. Lui aveva il sud nella pelle. Ma un giorno, si disse, lo vado a trovare, mio cugino. Per vedere se è ancora vivo.
Ma ecco, si alzano, veloce! Recupera la posizione, vecchio mio, si disse. E di nuovo saltò nello zaino dell’uomo mite.
Camminarono per giorni e giorni. Sempre verso sud, lui controllava che fosse sempre verso sud, era sempre verso sud, e come facesse Geco Moro a capirlo voi già lo sapete. Pioveva, e c’era il sole, l’uomo mite, detto “il mingherlino”, col suo zainone norvegese più grande di lui, alternava i buffi scaldamuscoli giallo oro a una mantella ancora più buffa, tutta rossa. Poi si metteva un cappello da marinaio stile Achab, e l’avventura diventava ancora più avventura, Geco pensava di poter solcare il mare, mentre camminavano sulle vie del sale vicino alle rocce appuntite della costa. E il grosso zaino diventava il dorso di una balena.
Dall’alto videro un faro, non quello da cui erano partiti, un faro nuovo, uguale ma diverso. Gli umani alzarono le braccia al cielo, e accelerarono il passo con energia. Arrivarono sotto a quel faro, in una grande piazza. Superarono anche il faro, e davanti non c’era più terra. Solo mare. Mare di qua, e mare di là, sembravano due mari che si scontrano. Erano arrivati a sud. Questo era il sud che Geco voleva. Qui capì che voleva restare. Almeno per un po’.
Mentre gli umani si abbracciavano, e lanciavano i loro bastoni nel mare, si preparò a uscire. Ma “il mingherlino” stava aprendo la tasca superiore dello zaino, lo vide. Lo prese in mano, il cuore di Geco cominciò a scoppiargli nel petto. L’uomo gli sorrise, e lo spavento diminuì. “Il mingherlino” lo tenne nel palmo, con delicatezza, si guardarono negli occhi, la paura era scomparsa. Il mite lo appoggiò alla base di una colonna, lui si infilò, quasi senza fretta, in una fessura, perché i gechi sanno farsi sottili.
Voleva fargli capire la sua riconoscenza, rallentò ancora.
“Conoscevo una moffetta che veniva da Molfetta….”
Si sorrisero, erano arrivati a sud.