Testimonianze di vita al tempo della quarantena: “COVID 19” di F. Campolo
COVID 19, ovvero Coronavirus desease 19, cioè: malattia del coronavirus scoperta nell’anno 2019 …
Noi umani amiamo catalogare le cose, dare un ordine, un criterio, un senso. Facciamo le stesse cose anche con le galassie… Quella di Andromeda, ad esempio, si chiama M 31 e NGC 224.
In effetti, a guardarlo bene, anche questo minuscolo, terribile, devastante esserino somiglia ad una galassia panciuta e rotolante. Con le braccia che girano a spirale … e riempie i polmoni di noi umani fino a bloccare l’aria, impedendole di fluire liberamente negli alveoli e nei bronchi.
E ci strangola. Dal di dentro.
Virus democratico e per nulla altezzoso, nonostante il nome, non fa differenze di ceto, religione, razza …
Invade dove può, riproducendosi con micidiale rapidità.
Se ne è accorto tutto il mondo della sua presenza, nella maniera peggiore possibile. E ha costretto tutti a rifugiarsi nelle proprie case, a rinchiudersi nei propri appartamenti, a isolarsi gli uni dagli altri.
E’ come se tutto quello che sta succedendo abbia soppiantato le nostre ordinarie capacità di interazione col mondo.
Le nostre reazioni sono modificate. Le nostre azioni sono forzate. I nostri comportamenti sono stati deviati da un corso ultra naturale degli eventi. Dico ultra naturale perché la natura (spero non l’uomo) ha creato il virus, che però è straordinario in quanto nuovo, organismo sconosciuto all’homo sapiens e quindi anomalo ed imprevedibile nei suoi effetti diretti ed indiretti.
E come tutto ciò che riguarda l’ignoto, ci spaventa, a prescindere.
Perché siamo umani, timorosi e impacciati con ciò che non conosciamo, smargiassi e strafottenti con quello che pensiamo di conoscere.
Nelle ultime, difficili settimane, abbiamo molto spesso meditato sul cambio che ha subito la nostra vita, sulle modifiche che la malattia ha imposto al nostro vivere usuale.
E molto spesso abbiamo pensato a cosa fare (la prima, la seconda, la terza cosa…) una volta che la morsa dell’esserino panciuto avrebbe lasciato i nostri corpi.
In realtà, però, io vorrei proporre un punto di vista diverso: ovvero, avrei deciso di scrivere quello che, quando questa esperienza sarà finita, mi mancherà, di adesso.
Forse, a pensarci bene, non ci sarà qualcosa che “mi mancherà” … Allora correggo il tiro: vorrei scrivere adesso qualcosa che, quando questa cosa … sarà finita, mi ricorderà di adesso. Devo ancora precisare: intendo che quando questa cosa … sarà finita, non potremo dimenticarcene, fare finta che non sia successa, metterla nel dimenticatoio come un qualunque ricordo da rimuovere. Cioè: non dovremo dimenticarcene.
Bensì elaborarla, meditarla, farne oggetto di riflessioni. Nel modo giusto, senza tremori o terrori spaventevoli. Questo per ricordare come siamo stati. Quello che abbiamo pensato. Le nostre riflessioni in questo momento. Le nostre paure. Le nostre notti. I nostri giorni.
Le nostre pantofole, il nostro sguardo da dietro una finestra…
E vorrei pensare a questo attraverso l’esame di alcuni elementi caratteristici di questi giorni, che li rendono diversi da tutti gli altri.
Comincio.
Il silenzio
Il silenzio. Vorrò ricordare il silenzio di questi giorni, di queste sere, quando il sole va via. Il silenzio fuori. Lungo, pesante, come un mantello grigio e largo di lana.
Che avvolge. L’orecchio cerca di rincorrere, di trovare dei suoni. Ma non ce ne sono. Fuori è silenzio. Fuori è un mondo che non c’è. Un mondo che si è ritirato nelle mura dei palazzi. Dietro porte e portoni. Mattoni e serrande.
Il silenzio è ovunque. Una cappa sordida e sibilante. Entra nelle orecchie e le ferisce, scivolando poi nella mente. A insinuare dubbi e domande.
Di notte Assale come un animale ferito. Ti costringe all’angolo e ti scava dentro cunicoli di nulla.
A scoprire le nostre debolezze.
A ricordarci quanto siamo piccoli e insignificanti.
E’ strano come qualcosa che non c’è (il silenzio è assenza) possa spingersi così a fondo nella psiche.
Seconda stella a destra … Ci siamo finiti tutti, nel mondo che non c’è.
Adesso dovremo, lentamente, tornare indietro.
Con pazienza. Facendo rumore.
Quando lo ascolto, il silenzio, comincio a saltellare, giro per casa saltando e facendo rumore; corro e sposto mobili … e poi mi fermo ad ascoltare. Se lo sento ancora, ricomincio, più forte di prima. Fino a che non smette.
Di sera, di notte, è più difficile. Ci si fa i conti direttamente. Il gioco e l’arena si sposta dentro. Ci si guarda in cagnesco, ognuno al proprio angolo. Lui si fa beffe delle nostre difese. Le elude più facilmente. Sibila e striscia fino a scoppiare nelle orecchie.
Io provo a contrastarlo, ma, quando sento che si infila nei remoti pertugi porosi del cranio, mi fermo e prego.
E la preghiera fa un sacco di rumore. Basta farla per bene. Nel buio del mondo è un canto melodico, che trasporta lontano e annulla la minaccia silenziosa.
Le mascherine
Le mascherine sono un nascondiglio di stoffa spiegazzata. Un baluardo stantio di difesa contro il mondo.
Nascondono i nostri volti, i nostri sorrisi, le nostre espressioni.
Bloccano le comunicazioni, attutiscono la voce, schermano le verità.
E bloccano il flu … le goccioline … l’aerosol … gli effetti degli starnuti, della tosse e dello stesso respiro …
Proteggono gli altri da noi (homo homini lupus …), impedendo che noi arriviamo agli altri.
Ci trasformano in “wanted“, del selvaggio west … centinaia … migliaia, milioni di “wanted“.
Ma chi ci cerca … a noi? Tentiamo disperatamente di sfuggire gli uni agli altri. Mica di trovarci … o di ri-trovarci, fra noi …
Migliaia … milioni di “Mezzogiorni di fuoco” in giro per il mondo…
Non si può neanche cantare, con le mascherine. Non è carnevale, con quelle maschere. Non è uno scherzo, non si gioca.
La preghiera
Di tutti i luoghi aperti al pubblico e deserti che, visti dall’occhio della telecamera destano sgomento, i luoghi di culto sono quelli che sintetizzano più degli altri l’attuale distanza dell’uomo dall’uomo. Il celebrante che legge la Parola ad una fila di panche vuote riporta alla mente la definizione data al Battista: “Voce di uno che grida nel deserto”.
Il silenzio dinanzi l’altare, il vuoto di Piazza San Pietro davanti al Pontefice che alza il Santissimo, la benedizione impartita alle navate desolate … rappresentano plasticamente la distanza fisica attuale fra le infinite Chiese domestiche e le Chiese case del Padre, nelle cui celebrazioni non si dice, oggi: “scambiatevi un segno di pace” … o “la messa è finita, andate in pace”.
La solitudine
La malattia spinge alla solitudine. Impone la solitudine. Costringe all’isolamento.
Chiude i nostri confini, i nostri orizzonti, i nostri interessi nell’universo finito delle nostre case.
I giovani riescono ad evadere grazie alla dimestichezza generazionale con l’uso della rete.
I meno giovani arrancano. Gli anziani (i fragili), restano indietro, perdono i loro riferimenti, soccombono all’urto dei nemici invisibili che vivono dentro di loro.
La solitudine, loro compagna abituale, oggi è amplificata dall’eco infinito della interruzione dei rapporti su scala mondiale.
Le città intere soffrono di solitudine. Le immagini inverosimili delle piazze e delle strade di tutto il mondo private delle persone, ne sono l’emblema eloquente.
Questi e molti altri potrebbero essere i ricordi che vorrei che venissero conservati.
Si badi bene, ognuno può rimescolarli, riformularli, rimeditarli secondo le infinite variabili delle proprie emozioni e sensazioni.
Ognuno di noi potrebbe raccontare una, cento storie diverse.
Nello sfondo ovattato della mia stanza dove scrivo, tento di rapire alcuni rumori che, lentamente, tornano a scivolare lungo le strade; mentre sul balcone, continua a sventolare, anche sotto la pioggia, il tricolore.
(Francesco Campolo, Comunità Masci RC4)